Obiettivi fotografici: la guida definitiva a tutte le sigle che trovate sulle ottiche

Category: Cultura Fotografica Comments: Nessun commento

La sigla di ogni obiettivo fotografico contiene, di norma, molte importanti informazioni. Certamente lunghezza focale e apertura massima, i primi due criteri di scelta di ogni obiettivo. Poi informazioni sull’attacco (quindi sulla compatibilità con la fotocamera), sulla costruzione, sull’utilizzo di eventuali elementi “speciali” e altro ancora.

Non è purtroppo facilissimo districarsi tra queste sigle, sia perché possono fare riferimento a tecnologie poco note, sia perché ogni produttore utilizza una sua nomenclatura specifica, indicando in modo diverso caratteristiche comuni a pressoché tutti i costruttori.

Con questa guida mirata vogliamo occuparci proprio di questo: interpretare correttamente le sigle legate agli obiettivi fotografici (che siano esplicitate nel nome o, più in generale, contenute in schede tecniche o materiale promozionale). Per far questo, introdurremo innanzitutto alcune caratteristiche comuni, che successivamente richiameremo all’interno delle parti dedicate alla nomenclatura di tutti i principali produttori.

NOTA. Nel caso di Canon e Nikon, al fine di favorire la lettura evitando frequenti distinguo, faremo implicito riferimento alle ottiche reflex. Le ottiche mirrorless Full Frame Canon RF e Nikon Z utilizzano convenzioni e sigle del tutto analoghe.    

CARATTERISTICHE GENERALI

Quasi tutti gli obiettivi moderni sono autofocus. Ci possono però essere importanti differenze in termini di MOTORE AF utilizzato, che influenza in modo determinante rumorosità, prestazioni e l’importante funzione di correzione manuale della messa a fuoco ad AF inserito.   

La base della piramide è in questo caso rappresentata dai tradizionali motori a corrente continua, con connessione meccanica (ingranaggi) tra motore stesso e ghiera di messa a fuoco. Hanno equipaggiato pressoché tutti gli obiettivi autofocus di prima generazione, per poi lasciare progressivamente spazio a soluzioni più avanzate.


Motori AF a confronto. A sinistra: USM ad anello – nessun contatto tra statore e rotore. Al centro: micromotore (in questo caso STM) e collegamento a ingranaggi – traslazione lineare tramite chiocciola a spirale. A destra: micromotore (sempre STM) con azionamento lineare tramite vite senza fine. Fonte: Canon.  

Un grande balzo in avanti in termini di prestazioni, silenziosità e praticità è stato compiuto con l’introduzione dei cosiddetti “ultrasonici (ad anello)“, così identificati perché basati su anelli rotore/statore comandati da un elemento piezoelettrico oscillante a frequenze dell’ordine delle decine di KHz. Oltre a essere tipicamente veloci e silenziosi, questi motori non richiedono ingranaggi sempre in presa tra rotore e statore, il che consente ai costruttori di ottenere due vantaggi pratici: la ghiera di messa a fuoco manuale non rotante durante l’autofocus (il che rende possibile creare ghiere ampie e facilmente impugnabili) e la possibilità di correggere manualmente la messa a fuoco senza disinserire l’autofocus (funzione nota come manual focus override o full-time manual focus).

Oggi, molti motori AF sono di questo tipo, ma ancora si trovano motori tradizionali o motori ultrasonici (non ad anello) che utilizzano ingranaggi sempre in presa e non offrono la funzione manual focus override.

Si stanno inoltre diffondendo motori passo-passo e azionamenti lineari, magari comandati da elementi piezoelettrici analoghi a quelli dei motori ultrasonici anulari. Il test è semplice: con AF inserito, se la ghiera di messa a fuoco manuale è libera di ruotare, il motore è ultrasonico ad anello (o successiva evoluzione).

Molti obiettivi moderni sono dotati di STABILIZZATORE OTTICO, che riduce la probabilità di micro-mosso impugnando a mano libera. Tutti conoscono l’utilità di un simile strumento, forse però non tutti sanno che lo stabilizzatore in ottica tende per sua natura a essere meno efficace sulle brevi distanze, il che ne rende superflua l’adozione su grandangolari e ottiche standard, a meno ovviamente non si desideri effettuare riprese video. Gli stabilizzatori più avanzati, tipicamente montati su teleobiettivi, offrono più modalità operative, ad esempio ottimizzate per il video o per il panning (stabilizzano solo l’asse verticale). 


Lenti a bassa dispersione / apocromatiche. Fonte: Panasonic.

Una caratteristica vantata da alcuni obiettivi è l’apocromatismo, solitamente riassunta dalla sigla APO. Di che si tratta? Si dice apocromatico un sistema ottico che riduce al minimo (idealmente annulla) le aberrazioni cromatiche, cioè il fenomeno per cui lunghezze d’onda differenti vengono messe a fuoco su piani diversi, provocando i caratteristici margini colorati e una generale perdita di nitidezza. È ovviamente una caratteristica desiderabile, ma è giusto sapere un paio di fatti a riguardo. Innanzitutto, trattandosi di un problema generato dalla diffrazione ad angoli diversi delle diverse componenti spettrali, più lungo è il percorso che la luce dovrà compiere e più evidente sarà il problema. Per i teleobiettivi, cioè, è più importante.

Una seconda informazione utile, senza voler fare inutile dietrologia, è che non esiste un limite stabilito da una norma ISO oltre il quale è “corretto” usare la dicitura APO – la scelta è lasciata al produttore. A questo si deve aggiungere che “apocromatico” e “acromatico” non sono sinonimi. I primi correggono infatti tre lunghezze d’onda (rosso, verde, blu), i secondi solo gli estremi dello spettro (rosso e blu). Creare obiettivi acromatici è più semplice (in effetti, molti obiettivi in commercio sono acromatici), e generalmente lo scopo viene raggiunto con l’utilizzo di elementi a bassa dispersione (LD, Low Dispersion, o successive evoluzioni). Questo può generare confusione e, a volte, alcuni termini vengono usati dai produttori in modo un po’ “disinvolto” con finalità promozionali.

Poche certezze: se costruire un “vero” APO è tutt’oggi piuttosto complesso, costruire uno zoom APO è un’impresa davvero molto complessa. Zoom con dicitura APO da poche centinaia di Euro, molto di moda qualche anno fa, sono con tutta probabilità semplicemente obiettivi in cui sono stati usati vetri a bassa dispersione. Il nostro consiglio è quello di non badare troppo a questo tipo di dicitura.

Ben più importante la MESSA A FUOCO INTERNA, o la MESSA A FUOCO POSTERIORE(non sono sinonimi, anche se una messa a fuoco posteriore è sempre anche interna). In entrambi i casi, l’elemento frontale dell’obiettivo non si estende, né ruota, durante la messa a fuoco. Oltre a facilitare la ripresa di soggetti ravvicinati e l’utilizzo di filtri dipendenti dall’orientamento, questo assicura generalmente una messa a fuoco più rapida (soprattutto quando vengono mossi solo più compatti elementi posteriori) e più precisa (dal punto di vista meccanico, lo scorrimento del barilotto è più problematico dello scorrimento interno del gruppo ottico coinvolto). In senso lato, questo è un indice della qualità costruttiva dell’ottica – gli obiettivi di alto livello solitamente sono di questo tipo.


Costruzione resistente a polvere e pioggia. Fonte: Fujifilm.

La cosiddetta TROPICALIZZAZIONE è la resistenza agli agenti atmosferici. Appartengono alla stessa categoria i rivestimenti idrorepellenti della lente frontale che, se non possono impedire alla lente di sporcarsi, perlomeno nel favoriscono la pulizia.

Altro vanto di alcuni obiettivi, considerato tanto importante da meritare una dicitura specifica, è l’utilizzo delle cosiddette LENTI ASFERICHE. Tale tipo di lente è utilizzata, a seconda della posizione all’interno dello schema ottico, tanto per correggere le aberrazioni sferiche quanto per correggere le distorsioni.

Il vantaggio è che la correzione è più efficace di quella (comunque possibile) che si otterrebbe utilizzando un maggior numero di lenti sferiche compensatrici. Gli obiettivi con lenti asferiche, dunque, non solo garantiscono tipicamente maggiore qualità, ma sono anche più compatti (in effetti, a volte le lenti asferiche vengono impiegate principalmente a questo scopo).


Lenti sferiche e asferiche a confronto. Fonte: Panasonic.

Dato che le aberrazioni sferiche crescono dal centro alla periferia della lente, e che dunque le lenti di dimensione maggiore ne soffrono maggiormente, l’utilizzo di lenti asferiche a fini correttivi è teoricamente vantaggioso soprattutto per i normali e i piccoli tele molto luminosi, cioè tipicamente gli obiettivi da ritratto (50mm f/1.4, 85mm f/1.4, 135mm f/1.8 e simili). Su questo punto ci sono però diverse correnti di pensiero. Il fatto è che la correzione perfetta non esiste, e che in caso di sovra-correzione dell’aberrazione sferica, la transizione tra fuoco e fuori fuoco acquista contrasto e può farsi irregolare. I fotografi parlano in gergo di bokeh “nervoso”. Dunque, pur essendo vero che lenti asferiche ben utilizzate sono molto utili per migliorare la nitidezza ai bordi di un piccolo tele da ritratto, alcuni ritrattisti preferiscono schemi ottici con sole lenti sferiche, sostenendo (comprensibilmente) che la nitidezza alla periferia dell’immagine è inessenziale.         

Infine, va citato il TRATTAMENTO ANTI-RIFLESSO, fondamentale in ogni ottica moderna. Il problema di fondo è facilmente comprensibile: a ogni interfaccia aria-vetro all’interno dell’obiettivo (ed esistono due interfacce aria-vetro per ogni gruppo di lenti), parte della luce viene riflessa anziché essere trasmessa. Gli effetti vanno da un bagliore diffuso che riduce il contrasto complessivo dell’immagine (in caso di luce diffusa) ai caratteristici artefatti mostrati nella figura di esempio (in caso di sorgente di luce intense e puntuali).  


Tecnologia antiriflesso tradizionale (multistrato) e nanometrica. Fonte: Sony.

Indicando con (T) la percentuale di luce trasmessa dalla singola interfaccia aria-vetro (sempre minore di 1), e con (n) il numero di interfacce aria-vetro, la percentuale totale di luce trasmessa è pari a:
TTOT = T^n.

In assenza di trattamenti anti-riflesso, si può indicativamente stimare che, in media, un 5% della luce venga rifratta a ogni interfaccia (la percentuale aumenta all’aumentare dell’indice di rifrazione). Zeiss calcolò un 7% quando, nel 1896, sviluppò il suo noto schema Planar (basato su vetri ad alto indice di rifrazione); dato che lo schema originale prevede 4 gruppi, TTOT = 0,93^8 = 0,56. Solo il 56% della luce incidente avrebbe cioè raggiunto la pellicola. Per questo, e nonostante le innegabili doti ottiche lo schema Planar fu accantonato per quasi mezzo secolo, fino a quando, dopo la seconda guerra mondiale, non divenne commercialmente disponibile il trattamento antiriflesso T Coating (inventato dalla stessa Zeiss) che riduceva le perdite per rifrazione a meno dell’1%.

Successivamente sono nati i trattamenti antiriflesso multistrato, basati sul principio dell’interferenza distruttiva – in estrema sintesi, ogni strato, di opportuno indice di rifrazione, è spesso esattamente 1/4 della lunghezza d’onda (media) della luce incidente, così ogni strato riflette luce che percorre “mezza lunghezza d’onda” in più di quella riflessa dallo strato precedente, sommandosi in opposizione di fase. Con questa tecnica, Pentax già nei primissimi anni ’70 riusciva a ottenere T=0,998.

Oggi il trattamento antiriflesso multistrato rappresenta la base comune per tutti i produttori, e viene spesso superato con sofisticate tecniche di deposito su scala nanometrica di cui parleremo tra poco, nella parte dedicata alla nomenclatura dei vari produttori.

Fonte: fotografidigitali.it

Lascia un commento

Puoi usare questi tag e attributi HTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.